«Avete preso un bambino che non stava mai fermo. L’avete messo da solo davanti a uno schermo, e adesso vi domandate se sia normale » . I nostri ragazzi, così fragili, così vulnerabili, così drammaticamente soli. Non arriva mai impreparato Daniele Silvestri al festival di Sanremo, le sue denunce sono un pugno diritto allo stomaco. Nella futile atmosfera di note già ascoltate, di duetti prefabbricati e di gag rifatte che non facevano ridere neppure quando furono scritte la prima volta, si è chiusa la stanca liturgia di un festival che tra favorevoli e contrari celebra la decadenza di un Paese di cui vorrebbe essere lo specchio, forse la critica, e semmai, il giorno dopo a riflettori spenti, molto di più del passato, il suo lustrino da circo che esalta ancora nani e ballerine seduti ai primi posti dell’Ariston o dietro le quinte. Tutto fa spettacolo, soprattutto il nulla che oggi è diventato il vero protagonista dei pensieri, il solo reality di perenne successo che riempie i palinsesti, meglio rilassarsi con il facile aggancio giustificativo che la realtà vive di suo il disagio quotidiano e che per questo cerca evasioni e non provocazioni di senso.
E poi non è la “missio” di Sanremo quella di far pensare, o forse no. L’arte lo è di sicuro. Anzi quando un progetto artistico amplifica la voce dei problemi reali diventa formidabile mezzo di comunicazione, passaggio di significati che in forza del proprio linguaggio riescono ad emozionare e per questo a far pensare, a rendere il fugace ascolto di parole scritte o musicate, dipinte o scolpite vita che comunica vita. Anche al Festival di Sanremo, nella sua storia è possibile rintracciare momenti in cui il grande pubblico è stato catturato da provocazioni forti che, grazie alla platea di quei milioni di telespettatori, hanno percorso strade inaspettate, dibatti e dialoghi larghi e diffusi che la politica non riusciva, ancor di più oggi, ad immaginare, a costruire. Per carità è giusto anche che la gente, carica di pensieri e di preoccupazioni, si svaghi, si rilassi.
L’amore, la passione, il romanticismo di incontri e i fallimenti delle promesse è parte del costume e fa bene la canzone a richiamare quei motivi che fischieremo, canticchieremo un po’ tutti. Ma è vero anche che ci sono manifesti di verità in alcuni testi che sanno raccontare la vita oltre il fugace andare dei sentimenti e uno di questi è proprio “Argento vivo” di Daniele Silvestri che vi invito a leggere per intero. “ Mi resta solo il rancore. Ho sedici anni ma è già più di dieci che ho smesso di credere che ci sia ancora qualcosa là fuori”.
Un mondo apparentemente abitato da libertà che si rivela una prigione per i nostri figli, per chi è in carcere davvero a pagare colpe non sue o per chi fuori non trova vita all’altezza della sua vita. E la cosa più triste è che nel testo di Silvestri non c’è il lieto fine, non avviene come spesso capita nelle canzoni destinate al grande pubblico che dopo la denuncia ci sia il riscatto.
Lascia l’amaro in bocca, come purtroppo la realtà, senza generalizzare, diffusa sostanza che racconta di troppi ragazzi soli, troppo soli, morti prima di morire: “Se c’è un reato commesso là fuori è stato quello di nascere”. Spesso ripeto ai genitori che la loro prima responsabilità, la loro prima libertà, è quella di lottare per i propri ragazzi. Un uomo e una donna passano il loro Dna, la loro storia nella carne di una nuova vita che solo se sarà protetta, curata, accompagnata con amore e responsabilità sarà capace di crescere in modo sano, umano. Quando viene alla luce un figlio è la stessa identità del genitore che cambia, perfino il nome proprio cede il passa al nuovo: papà, mamma. Un uomo e una donna possono anche non essere marito e moglie, possono non esserlo mai stati o esserlo per sempre. Un amore può anche finire, un matrimonio andare in crisi e lacerarsi, ma in un figlio, nella sua carne, resterà impressa per sempre la vita di papà e mamma.
“E parlano, parlano, parlano, parlano. Mentre mio padre mi spiega perché è importante studiare, mentre mia madre annega nelle sue stesse parole. Tengo la musica al massimo. Ancora. Ma non capiscono un cazzo, no”. Lo so che fare il mestiere di genitore è difficile soprattutto quando chi dovrebbe esserti a fianco nel tuo ruolo educativo ti ha lasciato solo, lo Stato, la politica, la chiesa, la scuola. Lo so che i soldi non bastano mai o che è colpa dei soldi, troppi, lo so che non puoi chiudere in casa tuo figlio e che il mondo è così complicato che, mentre tu insegni una cosa, fuori c’è altro che passa. Lo so che a volte la sfida è più pesante di quanto si possa pensare, ma un mondo in cui i ragazzi non sanno crescere è quello stesso mondo in cui noi adulti non vogliamo ancora crescere.
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