Come ogni anno nel nostro calendario, scandito da Pasqua, Natale e tutte le cosiddette “feste comandate”, non poteva mancare l’evento nazional-popolare per eccellenza che mette davanti al televisore milioni d’italiani.
Un rito collettivo che, nel bene e nel male, attraversa quasi settant’anni della vita del Belpaese. E anche quest’anno, dal 5 al 9 febbraio, è andata in scena la sessantanovesima edizione del Festival di Sanremo, la seconda sotto la direzione artistica di Claudio Baglioni.
Da settimane ormai, sui media, sui social italiani non si parla d’altro che del Festival, dei conduttori, dei cantanti e di tutto quel che ruota intorno ad essi. E come ogni anno, dalla messa in onda della prima serata in poi, si commenta quel che si è visto la sera prima in tv ed è un proliferare di opinioni, critiche, analisi che vanno da quelle “terra terra” fatte dalle persone normali al lavoro o durante le serate stesse, in gruppi d’ascolto spesso nati sui social (fenomeno questo davvero interessante e decisamente degno di studio da parte dei sociologi dei massmedia), fino ai dibattiti a volte surreali che si svolgono nei vari programmi televisivi che per giorni sconvolgono i palinsesti per dare ampio risalto alla kermesse sanremese.
Ancora una volta il dibattito si è acceso, nello spirito italico che vede da sempre l’eterna lotta tra guelfi e ghibellini, sulla natura stessa del Festival. Deve essere una vetrina della musica italiana tradizionale oppure deve presentare le innovazioni nel panorama della canzone nostrana?
Questo dibattito in realtà esiste da quando è nato il Festival, da quando i vari “papaveri e papere” istituzionali si contrapponevano ai cosiddetti “urlatori”, finché poi questi ultimi si ritrovavano nel tempo a vestire i panni della canzone tradizionale in un passaggio di testimone “fisiologico” e sfidavano le nuove generazioni viste a loro volta come gli innovatori di turno.
Da Domenico Modugno in poi, il testimone è passato nelle mani di Luigi Tenco, Lucio Dalla, Vasco Rossi, giusto per fare i nomi di alcuni, fino ad arrivare a Mahmood, vincitore di quest’ultima edizione del Festival. Una vittoria che ha scatenato un dibattito acceso sulla legittimità o meno di un esito inaspettato come questo. E il primo a sorprendersi è stato proprio Mahmood, venticinquenne di padre egiziano e madre italiana, italiano a tutti gli effetti, cresciuto alla periferia di Milano.
Un ragazzo come tanti che ha trovato la sua strada puntando sulla propria creatività e sul proprio coraggio, senza avere nulla da perdere, con un testo molto profondo che parla della sua storia personale, del suo dolore di figlio il cui padre lo ha abbandonato.
Pochi minuti dopo questa sorprendente vittoria il vicepremier, nonché ministro dell’Interno Salvini ha prontamente twittato: “Mahmood? mah, la canzone italiana più bella? Io avrei scelto Ultimo, voi che dite?", ricevendo come risposta da Mahmood: “Le mie canzoni diventano di tutti dopo che le ho scritte”, mettendo in luce l’universalità della musica, il suo voler parlare a tutti indistintamente, senza guardare alle diversità.
Diversità che saltavano subito all’occhio osservando i primi tre classificati sul palco: non si poteva fare a meno di notare che c’era buona parte della gioventù italiana rappresentata da Mahmood, ragazzo di origine egiziana, integrato grazie alla sua passione per la musica che lo ha accompagnato sin da piccolo, per passare a Ultimo, nato e vissuto in una borgata romana, fino ai ragazzi del Volo, ex bambini prodigio che portano in giro per il mondo la musica tradizionale italiana.
Claudio Baglioni lo ha detto in un discorso di ringraziamento, proprio durante l’ultima serata: “Nessuno è perfetto”. E, durante le cinque lunghe maratone del “suo” Sanremo, ha voluto presentare la musica di questo Paese, una musica che, come il nostro Paese, non è perfetta, può non piacere in toto, ma è così. Da Nilla Pizzi in poi, fino a oggi, con le sue stranezze, le sue innovazioni, le sue contaminazioni. E il palco di Sanremo ha accolto tutti, senza fare distinzioni.
Ha vinto una bella canzone, contemporanea, attuale più che mai. Una canzone che rappresenta un frammento dello specchio variegato del Paese che è il Festival di Sanremo. E’ questa, in fondo, la forza di Sanremo: riflette pezzi di noi.
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