Venerdì Santo, in Abruzzo e nelle regioni del Sud Italia, è la processione del Cristo morto. In ogni paese, in ogni frazione, tra luminarie e canti, passano le statue di Cristo e di Maria. E si canta, quasi dappertutto, il Miserere, parola latina che significa: “Perdonami, abbi pietà”. Un salmo, che fa parte del libro dei Salmi dell’Antico Testamento. È il numero 50. Ne è autore il re Davide, che implora perdono a Dio, per aver commesso una colpa gravissima. Si era, infatti, invaghito di una donna, Betsabea, moglie di Uria, hittita. L’aveva messa incinta, ma aveva cercato di sfuggire alle sue responsabilità, architettando l’artificio di far tornare dalla guerra il marito, perché giacesse con la moglie, addossandogli la responsabilità della gravidanza. Ma Uria, tornato, non entrerà in casa, nemmeno dopo che Davide ha disposto di farlo ubriacare. Non giacerà con Betsabea, col pensiero rivolto ai suoi commilitoni in battaglia. Di fronte al fallimento dello stratagemma, il re Davide ordina a Ioab, il comandante, di porre Uria in prima fila, nel combattimento. E mentre Uria muore sul campo di battaglia, Ioab manda un messaggero a Davide per dargli la notizia: “Anche il tuo servo Uria l’Hittita è morto”. Così Davide ha campo libero di prendersi in casa Betsabea.
Ma… un profeta, Nathan, lo affronta e lo accusa dell’azione criminosa, ricorrendo ad un apologo: “Vi erano due uomini nella stessa città, uno ricco e l’altro povero… Il ricco aveva tutto, il povero aveva solo una pecorella piccina che egli aveva comprato e allevato…. Il ricco portò via la pecora del povero e lo mandò a morire”. Quando Davide, pieno di rabbia, chiede chi fosse quel ricco, Nathan risponde: “Tu sei quell’uomo! Tu hai colpito di spada Uria l’Hittita, hai preso in moglie la moglie sua e lo hai ucciso con la spada degli Ammoniti”. E Davide risponde a Nathan: “Ho peccato contro il Signore!” Quel rimprovero e quello smascheramento inducono Davide a pentirsi e a scrivere il Miserere. Il bambino che la moglie di Uria aveva partorito si ammala e muore. Davide si unisce di nuovo con Betsabea e nasce Salomone. Una storia raccontata nella Bibbia, Antico Testamento, Secondo libro di Samuele, capitoli 11 e 12.
Se l’uomo è la storia, e se la storia è maestra di vita, questo episodio dovrebbe indurre a riflettere, a rendere conto davanti alla propria coscienza e davanti agli altri dei nostri comportamenti. Davide lo fece. Lo potrebbe fare, oggi, qualche altro “ricco” e “potente”? La cronaca, in questi ultimi giorni, a livello mondiale, diffonde il grido delle numerose donne violentate e stuprate da personaggi ricchi e potenti, evidenziando come la lezione di Nathan a Davide è stata e resta ignorata. Sembra che si sia aperto il vaso di Pandora delle violenze sessuali e dell'abuso di potere, con il caso di Harvey Weinstein e dei tanti registi cinematografici, accusati di molestie e stupri. Una vicenda brutale e disumana che non riesce a trovare una soluzione equa e dignitosa. Ma, lo dovrebbe comunque, in nome di una autentica dignità della persona umana. Purtroppo, l’idea del “Miserere”, del pentimento per le colpe commesse, resta un’idea. Non una prassi.
I riti religiosi, con i sentimenti di pace e di serenità che producono, dovrebbero promuovere uno spirito di conversione (metànoia) e avere funzione di promozione umana. Si racconta che il grande scrittore francese Paul Claudel, entrando nella cattedrale di Nȏtre Dame a Parigi, ascoltasse il canto del Magnificat, restandone turbato, interiormente sconvolto. Il grande sociologo della religione Emile Durkheim, nel libro “Le forme elementari della vita religiosa”, sostiene che i riti fanno unire la collettività, e spesso le normali regole vengono infrante, rafforzando il legame di solidarietà. I riti collegano il presente al passato, il singolo alla collettività. Un rito è efficace quando produce stati mentali collettivi derivanti dal fatto che un gruppo è coeso al suo interno e periodicamente si riafferma. Non esiste società che non voglia ogni tanto rinsaldare i sentimenti collettivi e rivisitarli in certi periodi.
Annabella Rossi, antropologa, nel famoso libro “Le feste dei poveri” cerca di raccontare, di fotografare il comportamento dei fedeli, più che analizzarli. Ma è solo attraverso l’analisi e la discussione che la festa assume valore formativo. In questo caso, la processione del Venerdì Santo diventa momento di aggregazione, elemento emotivo che accomuna cittadini di diverse concezioni socio-politiche e perfino religiose, per ritrovare il senso comune dell’essere uomini.
Ma è anche l’istituzione che è tenuta al “mea culpa”, per scarsa o nulla evangelizzazione. La Chiesa di oggi, con l’aria di rinnovamento che si respira, può guardare con speranza alle tradizioni del passato, traendone ispirazione, rinnovandole interiormente e proiettandole verso un futuro in grado di affermare i valori più autentici della persona umana. Dal rito tradizionale si può e si dovrebbe passare ad una visione al futuro del messaggio e del contenuto rituale. Una riflessione ed una predicazione che diventano annuncio (kerigma) e testimonianza di vita in grado di coinvolgere le coscienze verso la trascendenza.
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