Saranno gli occhi di Sara che non riesco a cancellare, il suo profondo sguardo di bimba di non ancora nove anni che un mese fa ha detto ciao a papà e mamma. In un istante la sua vita è volata altrove, quaella di chi resta è irrimediabilmente cambiata. Era nel suo lettino di ospedale ormai già lontana, un micidiale aneurisma le ha tolto il respiro che ora passa nel pensiero di chi l’ama, nelle parole della fede per chi crede, nella vita Oltre per chi spera, intanto respira negli organi trapiantati a sconosciuti fratellini. Mi chiedo perché lei e non io, perché io vedrò Natale e lei no, se questo sia un privilegio o una pesante responsabilità.
Sarà il dolore silenzioso dei tanti bambini che stavano con Sara, accomunati nella stessa avventura, ho visto nella rianimazione del Santobono, tra carità operosa dei sanitari e tenere membra perforate, innocente strage. I bambini quando soffrono non fanno rumore, sembra che non vogliano dare fastidio, che non vogliano guastare il Natale a nessuno.
Non fanno rumore a Napoli o ad Aleppo, nei barconi stracolmi di gente in tragiche fughe, o nel degrado dei quartieri malati delle periferie vicino casa nostra o lontane nel mondo. Non fanno rumore, ma mi chiedo perché loro e non io. Saranno gli occhi di Gennaro che ho incrociato al carcere di Nisida, luce ancora non spenta, non tutta. Storia di malaffare, di delitto e di castigo, carcere di mare in un mare di solitudine.
Tante giovani vite rubate alla vita che per essere vita forse sarebbe dovuta nascere altrove, altrove avrebbe dovuto respirare militanza. Non è raro che qualche volontario si sia sentito confidare da Gennaro o dai suoi compagni di disavventura: “Come avrei voluto che tu fossi stato mio padre”. Vita diversa sognata, vita rubata alla vita.
Ancora mi chiedo perché loro e non io. Certo lo so, la scelta individuale, la famiglia, le giuste amicizie, la scuola. Parole. Intanto è Natale e non si soffre più, per me sì, e per loro, giovane carne, futuro tradito?
Sarà il sorriso amaro di Don Ciro delle Salicelle di Afragola, alle porte di Napoli, che vive il quotidiano provando a immaginare per lui e la sua gente una vita diversa. L’ho incontrato in questi giorni, una marea di gente, per lo più bambini, per lo più per strada, per lo più senza il minimo necessario. Tante promesse, da tutti, degrado da non potersi raccontare.
La domanda è sempre la stessa, la ripeto quasi a farmi male, perché loro, perché non io. Sarà per il fatto che ho saputo della Casa di Matteo, la prima esperienza del genere in Campania inaugurata giovedì scorso a Napoli. Una casa famiglia per piccoli ammalati terminali, neonati non riconosciuti dai genitori per le loro condizioni estreme e abbandonati in ospedale, un’opera di solidarietà fantastica a cui va dato sostegno e assicurato conforto, ma sapere che tenere creature hanno già segnato il loro percorso, benché la compassione di chi le accoglie, non può che provocare la stessa domanda: perché loro e non io.
Fatalità, caso, provvidenza, fortuna, sfortuna, parole da usare certo non mancheranno e di sicuro l’alibi dietro al quale siamo abituati a nasconderci ci permetterà una via d’uscita per raccontarci quello che più ci fa piacere. Non so perché loro e non io, non saprò mai quale disegno si cela nel percorso di vite diverse che disegnano diversi percorsi, ma se un Natale è giusto da vivere e quel Natale, oltre il rumore della sua cornice, delle luci, dei colori, dei sapori, rimanda a giustizia e pace, allora forse io resto in vita fino a quando sarà necessario per poter dare significato alla vita anche di chi è partito prima di me o di chi resta schiacciato dalla vita, ora. Sacrilego il Natale dei sopravvissuti alla notte che non raccolgono la sfida di raccontare la luce a chi resta, raccontarla oltre i confini della stessa notte per quelli che la notte l’hanno vissuta, inseguire una stella di un mondo che sa cosa significhi fare suo il dolore degli altri. E allora forse sarà Natale per chi resta, per chi è ormai altrove.
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