«LE DONNE parlano di se stesse », un bel soggetto per riportare la celebrazione dell’8 Marzo al centro di un dibattito alto sulla parità, sul ruolo e la missione della donna nella nostra società. Una provocazione culturale, politica, ecclesiale aperta non solo alla giusta rivendicazione sulla uguaglianza dei diritti alle donne non ancora pienamente compiuta, ma fissando l’attenzione sul tema della “differenza”, sulla specificità del femminile che non lede la fondamentale uguaglianza e parità degli esseri umani.
È difficile dare una connotazione unitaria ai movimenti femministi del Novecento, anche perché ogni gruppo si ispira a un’antropologia dalla quale dipende una prospettiva politica. Ora sembra tuttavia che nello stesso mondo femminile, nel pianeta donna variegato e multiplo, si ponga la necessità trasversale di voler ampliare la base del confronto e dare alla lotta anche un valore di riscoperta della specificità femminile, del ruolo della donna come donna nella società contemporanea. Resta ancora forte e attuale l’invito che faceva Simone de Beauvoir, la quale affermava che le donne, per liberarsi dalla condizione d’inferiorità stabilita dagli uomini, avrebbero dovuto combattere la differenza sessuale in nome dell’egualitarismo fino ad affermare che «non si nasce donna, lo si diventa».
UN’affermazione che vale ancora per tante culture e religioni che costringono la donna al margine della società, ma è vero anche che il movimento per la parità dei diritti tra maschi e femmine di strada ne ha fatta in tanti paesi del mondo e forse è venuto il tempo, alle nostre latitudini e non solo per le nostre, di inventare nuovi significati per la “festa della donna”, che per tanti giovani e giovanissimi sembra oggi destinata a essere solo materia per fiorai e scambio di mimose.
Un dibattito che servirebbe anche per la nostra città, essa stessa “pianeta donna”, che deve riconoscere soprattutto all’universo femminile il merito di averle saputo dare, in tempi non troppo lontani, una certa coesione sociale, un principio di unificazione per una terra strutturalmente anarchica.
So di incamminarmi in un terreno irto di insidie nel parlare di donne senza dimenticare che il più delle volte sono anche madri, eppure Napoli ha retto socialmente solo fino a quando hanno retto le donne, donne coraggiose, tenaci, carnali, faticatrici, sostanza di passione e sacrificio, e tra tutte loro, le donne lavoratrici e madri. C’è una relazione, a mio modesto parere, tra crisi delle nascite, precarietà della famiglia dovuta anche a mancate politiche sociali a tutela della comunità familiare, cultura della legalità e missione della donna nella società napoletana. Da noi più che altrove è stato sempre palese che il sesso forte era quello femminile, che se discriminazione c’è stata è stata determinata soprattutto dalla paura degli uomini di essere sopraffatti dall’intelligenza e dalla autorevolezza delle donne.
La donna è naturalmente capace di governare le relazioni ed è nella sua stessa natura tenere insieme le fila della differenza di quanti le sono affidati. La parità è giusta rivendicazione anche in merito ai più alti servizi nella società, ai doveri, ai diritti, agli spazi da occupare, ma la sua specificità, il suo essere donna, è la sua vera forza. Ed è della donna, solo della donna essere madre e, quantunque se ne dica, essere madre è cosa diversa dall’essere padre, fosse anche per il solo fatto che per quei straordinari nove mesi, ognuno di noi è stato un tutt’uno con la donna che poi l’ha partorito.
A noi maschi non è dato sapere fino in fondo cosa significhi quell’esperienza e questo, insieme a tutto il resto, fa la differenza.
A Napoli le madri sono state l’arma segreta di questa città, alla mancanza di uno Stato forte, presente con le sue leggi e i suoi decreti, sopperiva il calore della famiglia e delle sue regole. Ma a Napoli la famiglia era la madre e funzionava se c’era la madre, se mancava rischiava di saltare.
La modernità propone oggi altre dinamiche di aggregazione sociale, parentale, affettiva e il cambiamento indubbiamente è stato possibile anche per il nuovo ruolo della donna nella società e, chi sa, forse proprio questo cambiamento ha determinato più di altri elementi la fine di Napoli, tribù fondata sulla famiglia tradizionale.
Sarà stato certamente un bene ma fatto sta che nel frattempo a quella società non abbiamo saputo sostituirne un’altra capace di dare valore all’appartenenza a una comunità.
*Gennaro Matino è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'. Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recenti libri: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013) e "Tetti di Sole" (2014).
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