Ascoltiamo il Prof. Enzo Caffarelli, direttore editoriale del Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo. Dell’opera è stato anche co-curatore e autore.
Professore, che cosa le resta di più come studioso e come persona dalla realizzazione di quest’opera?
La parola chiave è: scoperta. La continua scoperta di un mondo che non conoscevo e che riserva sorprese d’ogni genere. Parlo di scoperte – o di approfondimenti – di temi alti, la sofferenza, la povertà, il riscatto, le tragedie naturali o procurate dall’egoismo e dalla discriminazione. Ha ragione Gian Antonio Stella e chi come lui ripetono che tutto ciò che capita agli immigrati stranieri in Italia è già accaduto agli italiani all’estero. Proprio tutto. Soprusi, angherie, abitazioni indegne d’un uomo, abbandoni, bambini venduti, mestieri umilissimi, ma anche tanto lavoro, impegno, buona volontà, coraggio. E parlo anche di fatti curiosi, aneddoti, singolarità che sono emerse via via dalle ricerche dei curatori e degli autori.
Per esempio?
Beh, forse non tutti sanno che il mondo è pieno di città e paesi che ripetono quello di centri italiani. C’è una voce del dizionario che riguarda appunto la “replicazione dei toponimi”. Non tutti sanno che una volta eravamo noi a emigrare in Romania. O che le squadre di calcio più famose del Sudamerica sono state fondate da italiani o avevano nomi italiani. Che la famosa seminatrice che figura sui francobolli e sulle monete francesi (la semeuse) era una ragazza di Gallinaro, in Ciociaria, e che i modelli ciociari hanno posato per Manet, Degas, Renoir, Van Gogh, Picasso, Matisse, Cezanne... Per esempio ho scoperto che la seconda città dell’Alaska, Fairbanks, è stata fondata da un modenese di Fanano, Felice Pedroni. Ho potuto documentarmi e documentare i lettori sulle isole dialettofone italiane sparse nel mondo: i trevisani di Segusino a Chipilo in Messico, i modenesi di Pavullo a Capitan Pastene in Cile, i liguri di Riva Trigoso a Santa Cruz in California... Con 700 voci e 160 box, oltre alle 600 pagine di appendici, davvero è stata una scoperta continua ed entusiasmante.
Anche con le pagine più tristi e drammatiche per i nostri emigrati...
Certo. In Italia sappiamo a stento di Marcinelle e Monongah, le due sciagure minerarie che sono costate più vite umane. Ma nel Dizionario abbiamo documentato anche le due tragedie minerarie di Dawson, dimenticate perfino negli Stati Uniti. Le stragi e gli eccidi di Aigues-Mortes in Provenza, di New Orleans, di Eureka in Nevada, di Lawrence in Massachusetts, di Tallulah in Louisiana, di Tandil a Buenos Aires, di Ybor City in Florida, oltre ai tanti naufragi in cui perirono migliaia e migliaia di italiani. Abbiamo ricostruito le storie, cercando dati precisi: una carneficina. A stento sappiamo della condanna a morte degli innocenti Sacco e Vanzetti. E mi pare davvero ingiusto che l’Italia, in particolare negli Stati Uniti, sia così spesso associata prima di tutto alla criminalità mafiosa.
Perché ha voluto un così ricco apparato statistico nel Dizionario?
Banalmente, potrei rispondere perché amo i numeri e so che i numeri, le graduatorie, le percentuali piacciono agli italiani. In realtà ritengo che solo le cifre aiutino a capire la portata dei fenomeni. Certe conoscenze sono appannaggio esclusivo degli studiosi, di poche istituzioni e dei membri delle associazioni di/con emigrati. Di pochissimi, cioè. Alzi la mano chi è consapevole del fatto che gli italiani e oriundi (ossia discendenti di italiani) all’estero sono stimabili in quasi 80 milioni, la metà dei quali in Brasile e in Argentina. Alzi la mano chi sa che, dopo quella di Roma, le province con più emigrati oggi all’estero sono Cosenza e Agrigento. Lo sapevate che nella Grande Emigrazione di fine Ottocento le regioni che hanno visto partire più persone sono Piemonte, Veneto e Friuli Venezia Giulia? Che negli anni precedenti la prima guerra mondiale la 1ª regione per numero di emigrati è stata la Lombardia? Il Sud è venuto dopo... Che gli Stati Uniti sono stati il 1º Paese di destinazione in modo continuativo solo tra il 1898 e il 1916? Che oggi i più presenti in Argentina e in Brasile vengono alla provincia di Roma, in Germania e in Belgio da quella di Agrigento, in Svizzera dal Leccese, in Francia e in Australia dal Reggino, in Canada dal Cosentino, in Cile da Genova e dintorni, in Irlanda dal Frusinate?
A proposito, i ciociari in Irlanda sono diventati i grandi gestori della ristorazione a base di “fish & chips”...
Ecco un altro aspetto interessantissimo degli emigrati all’estero. Si sono specializzati in nuovi mestieri – penso per esempio anche alla gente di Pantianicco vicino Udine, che monopolizzarono come infermieri e portantini i principali ospedali di Buenos Aires – oppure hanno esportato ciò che sapevano fare nel loro paese e in giro per l’Italia: i figurinai lucchesi, i librai massesi, i vetrai savonesi, gli scalpellini friulani, gli arrotini trentini, i costruttori di reti fognarie molisani, gli orsanti e gli scimmiari parmensi, i pescatori di aragoste baresi e messinesi... la lista è davvero lunga e straordinariamente interessante.
Come esperto di onomastica, quali argomenti di maggior interesse ha trovato nel mondo dell’emigrazione e ha riproposto nel Dizionario?
Tanto, davvero. Cito solo tre casi. Primo, il cambiamento di nomi, cognomi, toponimi di provenienza degli italiani all’estero. Qualche volta per sciatteria, per fraintendimento o anche per scelta consapevole e voluta dei nostri emigrati, al fine di meglio integrarsi. Secondo, le strade dedicate agli italiani nel mondo e le vie e le piazze che i comuni italiani stanno intitolando sempre più numerosi ai loro emigrati. Terzo: i nomi commerciali italiani che stanno acquistendo crescente prestigio internazionale: abbiamo focalizzato l’attenzione sui nomi di alcuni alimenti, sui nomi italiani delle automobili e sulle insegne di luoghi di ristorazione, ma gli àmbiti sono numerosissimi.
Nella prefazione al DEMIM si legge che l’opera dovrebbe interessare tanto gli italiani in Italia quanto gli italiani all’estero. Perché?
Gli italiani d’Italia perché auguro a tanti di fare le scoperte che ho fatto io e di conoscere più da vicino un’altra Italia che è più grande, parla più lingue, si esprime in modi più numerosi rispetto alla nostra penisola. I curricula scolastici non possono ignorare questo fenomeno. La ripresa economica in Italia in decenni particolarmente duri sia del XIX sia del XX secolo ebbe tra le sue cause le rimesse che inviavano gli emigrati. L’alfabetizzazione degli italiani si deve in gran parte in modo diretto e indiretto all’emigrazione: sembra strano e non sono io a dirlo, lo ha documentato mezzo secolo fa il grande linguista Tullio De Mauro. Dobbiamo andare oltre la valigia di cartone, i saluti dali ponti delle navi, le canzoni lacrimevoli, il broccolino (l’accento italo-americano) e gli zii d’America che tornavano per esibire le ricchezze acquisite oltre Oceano.
E a parte le scuole?
Le istituzioni, specie le Regioni, da qualche decennio stanno facendo cose importanti per gli italiani all’estero. Ma non bastano pagine di buona cultura, di lodevole assistenza, e di promozione di articoli made in Italy. Ci sono due mondi che sono ancora intimamente legati, ma che non si incontrano veramente. Se non nelle sagre di paese e nelle festività patronali per quelli che hanno i mezzi per tornare in Italia. L’Italia possiede una forza enorme fuori dei propri confini e non ne fa uso. E non lo dico da nazionalista (quale non sono, tifo sportivo a parte), ma da semplice osservatore che vede tante occasioni sfumare una dopo l’altra.
E agli italiani e oriundi residenti all’estero che cosa può dire e può dare un’opera come il DEMIM?
Una documentazione ampia sul fatto che sono in tanti, che hanno fatto e stanno facendo cose straordinarie e che dovrebbero alzare di più la voce per non sentirsi mai soli. Una conferma che l’Italia ha bisogno di loro, che ne conosce la storia degli antenati anche nei più piccoli meandri dei loro paeselli d’origine, anche se fa fatica a renderla patrimonio di tutti. E poi credo che gli italiani d’Australia potrebbero essere interessati a conoscere cosa è accaduto a chi emigrato in Germania, o quelli in Brasile a sapere la storia dei nostri connazionali che oggi vivono in Africa o in Asia, e viceversa...
Col senno di poi, oggi imposterebbe diversamente il Dizionario?
Detto che è stato per me un grande onore, e non solo un onere, lavorare come direttore editoriale e co-curatore del Dizionario, aggiungerei che pur con tutti i suoi limiti e difetti, è un’opera equilibrata, scientifica e divulgativa allo stesso tempo, piena di informazioni. Grazie pertanto ai co-curatori, grazie a tutti gli autori e un grazie informale ma sincero a coloro che la storia dell’emigrazione l’hanno scritta sulla loro pelle. Noi, in fondo, siamo stati solo (quasi) duecento narratori, che si sono appropriati di 80 milioni di esistenze e le hanno concentrate in 5 milioni e mezzo di caratteri dalle tastiere dei nostri computer.