Cosa succede quando un’italiana all’estero come me incontra un americano così italiano come John Cappelli? Lo racconto oggi, cercando nei ricordi. John è scomparso solo poche ore fa. Era ricoverato in un ospedale dell’upstate dove aveva da poco subito un intervento chirurgico.
Sì. Erano 6 anni fa, o forse di più, quando per la prima volta ho incontrato John. Aveva appena raggiunto cinquant’anni di carriera e dovevo scrivere la sua storia per Oggi7. Uscì con una grande foto in copertina.
Lo vedo da lontano, lo riconosco anche se non lo conosco. Sotto la statua del cortile delle Nazioni Unite un signore magrissimo con una coppola sulla fronte. Si guarda intorno con occhi vispi, curiosi, straordinariamente buoni.
Dopo gli occhi vedo il suo sorriso. Aperto, semplice, quasi da bambino. Ed è con fare fanciullesco che John Cappelli mi prende subito quasi per mano per visitare le stanze dell’ONU. Le “sue” stanze dell’ONU, quelle dove ha lavorato come cronista per anni.
Cammina tra un corridoio e l’altro, sembra leggerissimo, racconta e quelle mura sembrano seguirlo. Le sue parole diventano immagini.
John Cappelli sembra quasi non aver voglia di parlare di sè, ma solo di quel mondo e soprattutto di quel giornalismo. Il giornalismo di un cronista che anteponeva i fatti a tutto.
Mi porta nel suo ufficio, al terzo piano se non sbaglio. Adesso ricordo prima di tutto quell’odore, l’umidità delle carte, la pesantezza delle macchine da scrivere, un enorme stampante come non se ne vedono più. E poi tanti libri, giornali, appunti. Confusione. John non usava quasi più quella stanza, ma l’atmosfera sembrava rimasta ad anni prima. Si viveva.
Comincia a raccontarsi proprio dall’inizio. Nasce nel 1927 nel New Jersey. Il padre era di Marucci in Abruzzo, la madre della storica Mulbery Sreet di Manhattan. La perde quando aveva ha solo sei anni. Si traferisce in Italia, dove rimane fino al 46. Racconta di se stesso, di quel ragazzo che parlava inglese, che non capiva l’italiano ma aveva in testa il dialetto abruzzese.
Vive la guerra attivamente, come antifascista, mettendo più volte a rischio la propria vita. Porta informazioni ai militari inglesi nascosti nelle montagne abruzzesi. Racconta tutto con vivezza di particolari. Vedo il giovane John tra le montagne. Ricorda Leone Ginzburg, trucidato dai nazifascisti. Mentre parla si definisce con orgoglio: l’ultimo dei comunisti.
Torna negli USA nel 46. con la Marine Corps e si stabilisce nel Bronx, ad Arthur Avenue. La descrive per qualche minuto e mi sembra di vederla in quegli anni. Nel ‘62 sposa Nives, anche lei scrittrice. Presta servizio presso la Army Air Force. Completa gli studi e comincia a lavorare come giornalista per L’Unità del Popolo, pubblicato nel Bronx. Diventa poi corrispondente del quotidiano Paese Sera di Roma, incarico che mantiene per quasi trent’anni, fino al 1984. Dopo lavora per America Oggi, conservando il suo ufficio alle Nazioni Unite.
Letissia… continua a raccontare John.
E a questo punto le parole di John si fanno ancora più intense. Sempre più parole di un cronista. Le storie che racconta sono vive, sembra di viverle al presente, nonostante coprano decenni. Sfilano davanti a me personalità della politica, della scienza, capi di stato, re.
Quel giorno ho passato con lui diverse ore. Le prime, seguite da altri incontri quando veniva per New York. Negli ultimi mesi ho avuto con lui soprattutto lunghi scambi via email. Usava Internet con la curiosità di un quindicenne e mi chiedeva di tutto. Come furnziona facebook, wikipedia, cosa è una community on line. Mi raccontava l’evolvere del libro con le sue memorie, terminato da pochissimo.
Lettissia… quel giorno episodi, nomi, e tante storie. Dalla Spagna di Franco alla Cuba prima di Castro, Che Guevava. Il suo incontro con Kennedy. L’FBI e il razzismo a New Orleans nel 1960. Martin Luter King. Poi Alida Valli, Gina Lollobrigida, Gerard Philippe, Joe Di Maggio e ancora Amintore Fanfani, Pajetta, Ugo Pecchioli e Giorgio Napolitano accompagnati a Little Italy…
Parlava orgoglioso anche dei suoi colleghi. Di Antonello Marescalchi della Rai, di Furio Colombo, di Ugo Stille, Ruggero Orlando, Oriana Fallaci, Gaetano Scardocchia Gastone Orefice, Rodolfo Brancoli… e David Horowiz.
E poi del suo direttore Fausto Coen che gli disse: “Mi piace il tuo far cronaca all’americana, stringato e non da parolaio”.
Fu lui a raccontarmi per primo la storia di Tresca, come di molti altri italo-americani.
Ho cercato tra le mie carte l’articolo che scrissi allora. Non l’ho trovato ancora. Ma mi rendo conto che non ho bisogno di rileggerlo per ricordare quel primo incontro.
Letissia… eravano già amici. Un vero colpo di fulmine. John continuava a raccontare. A causa di quello che chiamava ‘il mio stroke’ aveva allora difficoltà a pronnunciare la z del mio nome. Letissia… era dolcissimo.
Da allora mi ha sempre chiamato Letissia, anche per iscritto.
E da allora mi ha scritto quasi tutti i giorni per commentare con la sua immancabile ironia eventi, articoli. Per parlami dei sui scritti su America Oggi. Anche le sue email cominciavano con “Letissia….”. Finivano poi con un dolce “tuo john” che non dimenticherò mai.
Mi mancherai John. Letissia saluta l’ultimo comunista.
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