Perchè ha ambientato il suo libro a Piazza Vittorio a Roma? Ha un significato particolare per lei, biograficamente parlando?
La scelta di piazza Vittorio non è casuale. Non c’è nessun esotismo o marketing letterario. Ho trascorso i miei i primi 6 anni di immigrato proprio in questa piazza. Ho ritrovato quell’atmosfera tipica dei quartieri popolari della mia città natale Algeri. In questo senso piazza Vittorio mi ha portato fortuna: all’inizio mi ha aiutato a superare i soliti problemi di adattamento, poi mi ha offerto un palcoscenico per raccontare una storia dell’Italia di oggi ma anche del domani. Mi capita spesso di dire che a Piazza Vittorio ho visto il futuro che verrà. Infatti mio romanzo sta avendo molto successo anche nelle altre città italiane dove gli immigrati cominciano ad essere più numerosi e visibili.
Sa che qui a New York abbiamo dedicato il “Mese della Cultura Italiana” al tema della “piazza”. Cosa immagina istintivamente quando sente questa parola? In altre parole, cosa le ricorda?
La piazza è un luogo straordinario di incontro e di scambio fra persone diverse. Abbiamo bisogno sempre dell’altro per definire la nostra identità. Ad esempio, io sono maschio solo perché ci sono le femmine, sono musulmano perché ci sono gli ebrei, i cristiani, i budisti, ecc. Sono giovane perché ci sono i vecchi e i bambini, ecc. La presenza dell’altro nella nostra vita dovrebbe essere una risorsa e non una minaccia. La piazza è un grande specchio di diversità per guadare meglio noi stessi e mettere in discussione le nostre certezze. La piazza è uno spazio fertile per coltivare i dubbi e la necessità di aprirsi all’altro.
La piazza è identificata come un posto dove le persone si riuniscono, si conoscono, passano del tempo insieme. Ma a volte è anche considerata un semplice luogo di passaggio. Come vengono riportati questi due punti di vista nel suo lavoro?
Sono rimasto sempre colpito dalle stazioni dei treni. Sono piazze di transizione. Mi ricordo che negli anni novanta del secolo scorso i somali si incontravano alla stazione di Roma Termini. La piazza è sinonimo di circolazione e di movimento. Ci dà la sensazione che noi non siamo fermi, siamo sempre in viaggio alla ricerca di una vita migliore. La piazza non è la casa, è un momento di transizione. Questo ci evita di esaltare le radici che è una forma di chiusura su noi stessi. Mio padre che ha vissuto l’immigrazione in Francia negli anni cinquanta mi ripeteva sempre: “Gli alberi hanno radici per stare fermi, gli uomini invece hanno gambe per viaggiare e scoprire il mondo”. La piazza nel mio romanzo è la vera protagonista. Piazza Vittorio è più importante degli altri personaggi.
Ognuno dei personaggi del suo libro, per la maggior parte immigranti, ha una percezione differente della “piazza”. Si può affermare che tale percezione varia a seconda del modo in cui queste persone sono più o meno riuscite ad integrarsi nella società italiana e, più nello specifico, in quella romana?
La piazza non è luogo isolato. Ci sono aggregazioni e relazioni che si creano. Ad esempio a piazza Vittorio, c’è il mercato, i bar, negozi, ecc. E’ un’esperienza umana molto profonda. Prima dell’integrazione, c’è l’accettazione reciproca della diversità. Ovviamente più abbiamo strumenti di conoscenza come la lingua, più abbiamo possibilità di creare rapporti affettivi e professionali. La paura dell’altro e l’indifferenza sono due ostacoli da superare per ottenere una convivenza pacifica. I punti di vista rispecchiano la vita stessa, il pluralismo nel senso largo della parola è un valore positivo
Nella cultura occidentale, la piazza è vista come punto di interscambio culturale dove artisti, letterati ed anche politici si incontrano per condividere idee e punti di vista. Piazza Vittorio sembra invece un posto dove le persone si limitano a coabitare, senza alcun desiderio di conoscere l’altro, le sue esperienze di vita, il suo passato. Sembra in effetti uno “scontro di civiltà” dove gli Italiani, inoltre, non fanno mistero dei pregiudizi che nutrono nei confronti dei loro stessi connazionali, quando provenienti da zone differenti dalla loro. Pensa che tale atteggiamento, così come manifestato a Piazza Vittorio, rappresenti in maniera appropriata quello dell’Italiano comune di fronte al “diverso”? Ancora, secondo lei, questa situazione è peculiare all’Italia o è piuttosto diffusa anche in altri Paesi?
Il mio Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio è un manuale di sopravivenza nel mondo dell’immigrazione. La scoperta dell’altro non è sempre un percorso piacevole. Chi non sta bene con stesso, non può stare bene con gli altri. È un punto consolidato nelle tutte ricerche psicologiche. In Italia, l’immigrato rappresenta una sfida culturale per gli italiani che hanno vissuto l’esperienza dell’immigrazione fino a qualche decennio fa. Penso che i pregiudizi siano una grande opportunità quando vengono chiariti e di conseguenza trasformati in conoscenza utile al dialogo. Il rischio è quello di essere ostaggi degli stereotipi. Tutti abbiamo dei pregiudizi. Dobbiamo avere la curiosità e il coraggio nel verificare se le nostre informazioni sull’altro sono veri o false. In fine dei conti, mio romanzo è una micro-storia italiana che trova riscontri nelle altre parte del mondo.
Quali aspettative nutre rispetto alla pubblicazione del suo libro negli USA?
Sono felicissimo che mio libro sia tradotto e pubblicato negli USA. Per me è una sfida importantissima. Mi affascina molto il fatto di avere lettrici e lettori americani o anglosassoni. Sono curioso di sapere i loro commenti che certamente arrecheranno la mia scrittura. Sono molto fiducioso.
A quale tipo di pubblico si riferisce il libro? In altre parole, a chi ne suggerirebbe la lettura?
Spero che mio romanzo sia aperto a tutti. In Italia o in Francia, è stato letto dai scolari e da accademici. È un libro che si presta a vari livelli di lettura perché offre tanti chiavi: la sfida dell’immigrazione, la questione della convivenza, la paura dell’altro, ecc. Ognuno di noi leggi un libro al suo modo, partendo dalla propria sensibilità ed esperienza personale. Per questo la lettura è un’avventura straordinaria che può migliorare la nostra vita.
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Amara Lakhous è nato ad Algeri nel 1970, vive a Roma dal 1995. È laureato in filosofia all’Università di Algeri e in antropologia culturale alla Sapienza di Roma. Attualmente lavora come giornalista professionista all’agenzia di stampa Adnkronos International a Roma. Il suo primo romanzo, Le cimici e il pirata, risale al 1999.
"Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio" è stato pubblicato in Italia nel 1996.
Il libro è un monologo a più voci (ogni capitolo è narrato in prima persona da uno dei personaggi) che fornisce al lettore una nuova prospettiva su Roma, una metropoli che ancora tenta di metabolizzare ed adattarsi ad una crescente multirazzialità. Tensioni, miserie, diffidenze reciproche, ma anche tenerezza e solidarietà diventano i colori di questo originale affresco di una realtà in continua evoluzione. Un mix tra giallo, analisi sociale e commedia all'italiana, Scontro che ci regala la preziosa possibilità di guardarci attraverso gli occhi di uno straniero.
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Gli appuntamenti di Amara Lakhous All'Istituto Italiano di Cultura (686 Park Avenue, New York):
21/10/08, ore 18:
Dibattito in Italiano, moderato da Hermann Haller (CUNY University), con la partecipazione di Giancarlo Dillena (giornalista e direttore del Corriere del Ticino)
RSVP: 212 879 4242 ext 367
22/10/08, ore 18:
Amara Lakous in "The changing face of the Italian Piazza". Tavola rotonda con gli ospiti Ann Goldstein (traduttrice), Lorain Adams (autrice).
RSVP: 212 879 4242 ext 368
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L’identità si definisce solo rispetto all’alterità come in un gioco di specchi (Amara Lakhous)
Foto da Città Invisibili [2]