John Schiumo. Un italoamericano a New York 1
John Schiumo, il simpatico conduttore di “The Call”, programma di punta delle serate di New York 1, l’emittente televisiva locale più famosa della Grande Mela, mi ha dato appuntamento in un parco per la nostra intervista.
Union Square Park, un piccolo ma incantevole spazio verde che segna l’inizio di una delle zone più cool di New York, è un luogo davvero informale e gioioso, perfettamente in linea con il carattere di John e con il mood della City. John, infatti, è una persona capace di parlare a tutti e di “far parlare” tutti. In questo consiste il suo lavoro. “The Call” è appunto una trasmissione basata sul contributo del pubblico. Questo quotidianamente stabilisce i temi di attualità più importanti e dice la sua, tramite telefonate in diretta, su un argomento diverso, sera dopo sera.
E’ stata una chiacchierata interessante, ricca di spunti, ma soprattutto della professionalità e dell’umanità di questo giovane conduttore. Abbiamo toccato diversi aspetti: dalle origini italo/americane di John (con tanto di albero genealogico,) al suo lavoro di docente di giornalismo presso la City University di New York, passando per i ricordi d’infanzia e gli aneddoti familiari.
Quanto senti il legame con le tue origini italo/americane?
Lo sento molto. Mio padre è nato e cresciuto nel cuore di Little Italy, qui a New York. I suoi genitori , originari di Matera,non parlavano inglese ma hanno imposto la lingua ai loro nove figli, per aiutarli a sentirsi americani. Mia madre, invece, è cresciuta nel quartiere italiano di Philadelphia e la sua famiglia è di Vasto in Abruzzo. Di conseguenza a casa mia ci sono numerose tradizioni italiane e la principale regola tra di noi è che la famiglia viene prima di tutto.
Come italo/americano, ma soprattutto come giornalista, cosa pensi del giornalismo italiano?
La mia guida in questo mondo è stata Federica Cellini, una cara amica e un’ottima giornalista, che attualmente lavora alla RAI.
Federica mi ha parlato dei pro e dei contro del giornalismo in Italia ed ha provato a spiegarmi come è organizzato il vostro panorama mediatico. So che ci sono parecchi problemi, ma d’altronde noi abbiamo i nostri, qui negli Stati Uniti.
Proprio per spiegare ai giovani giornalisti di domani quali sono le caratteristiche di un buon professionista ho iniziato ad insegnare alla scuola di giornalismo della City University di New York.
Cosa pensi della televisione italiana?
Sono stato in Italia cinque volte, sia in vacanza che per lavoro, e non ho mai acceso la televisione. Nemmeno una volta. Credo sia uno strumento davvero inadeguato a scoprire la cultura di un popolo; le persone possono dirti molto di più sulla storia di un paese, anche perché la tv spesso non rispecchia tutti i punti di vista presenti nella società. Ho osservato questo fenomeno anche in America, ma mi sembra ancora più evidente in Europa.
Il tuo programma, “The Call”, si basa sul contributo dei telespettatori. Tu credi al cosidetto “giornalismo dal basso”? Pensi che il pubblico possa aiutare i giornalisti nel lavoro?
Ci credo, eccome. Le persone “comuni” hanno spesso grandi intuizioni e val sempre la pena ascoltarle. Nel giornalismo non bisogna essere autoreferenziali e l’epoca in cui viviamo ci offre, come in nessun altro periodo storico, un numero pressoché infinito di strumenti per dialogare con gli utenti, da Internet ai siti di socialo networking.
Quindi, se si ha la possibilità di ottenere il contributo del pubblico nel determinare cosa è giornalisticamente rilevante, non vedo perché non utilizzarlo. Non metto in dubbio che sia una pratica rischiosa ma, come in ogni cosa, ci troviamo di fronte ad una curva a campana: ci sono gli estremi, è naturale, ma il centro della curva ben rappresenta l’utente medio e i suoi pensieri.
Perché hai deciso di diventare un giornalista?
Mi sono avvicinato a questo mondo è stato quando ero un bambino: mio padre era un agente assicurativo e tra i suoi clienti c’era Charles Kuralt, un giornalista della CBS molto noto.
Ogni domenica mattina vedevo così la sua trasmissione; Charles raccontava storie molto semplici, la vita di tutti i giorni di un’America quotidiana.
Con lo sguardo di oggi, posso dire che si trattava di storie molto ben fatte, nelle quali molte persone erano in grado di immedesimarsi.
Credo che il giornalismo vada fatto così. Ed io, un bambino di 7 anni, mi aggiravo per casa impugnando qualunque cosa somigliasse ad un microfono e provavo a raccontare storie, imitando Charles Kuralt.
A questo va aggiunto che mia madre è un’attrice e, se si somma la sua voglia di stare di fronte alle persone e di raccontare, con l’approccio alla vita pratico di mio padre, si può ben capire come io sia arrivato a questa scelta.
John durante il suo lavoro da reporter per New York 1 in occasione dell'11 settembre.
John ci ha raccontato che da quel momento ha deciso
che non sarebbe più stato un reporter nel senso canonico del termine
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