Enrico Franceschini. "Voglio l'America" - Storia di una Passione e di una Formazione
Se c’è una categoria che stenta a scomparire in questo tempo così difficile, critico e pieno di incertezze è quella dei “sognatori”.
A leggere tutto d’un fiato “Voglio l’America” di Enrico Franceschini, (già autore di “Avevo Vent’anni. Storia di un collettivo studentesco…”, Feltrinelli 2007 e “Fuori Stagione”, Feltrinelli 2006) appena edito da Feltrinelli, questa categoria sembra rinvigorirsi e riunire due epoche quella attuale e quella da lui fotografata, di fine anni ’70 inizi anni ’80. Due periodi che per ragioni di contesti e opportunità, risultano totalmente opposti.
Classe 1956, attualmente corrispondente da Londra de “la Repubblica”, e vincitore nel 1994 del Premio Europa per un reportage sulla rivolta armata nelle strade di Mosca, Enrico Franceschini trasforma quella che poteva essere una ordinaria autobiografia in un romanzo appassionante nella forma, con l’intento ben riuscito di trasferire la sua esperienza iniziatica nella mitica Manhattan di quegli anni: mito acceso di tanti giovani di allora e forse solo un po’ sfocato di questi tempi.
La partenza avventurosa, tentando di riunire quanto più budget possibile, l’arrivo poco promettente e l’immersione da artigiano e autodidatta nel mondo del giornalismo sono i primi timidi passi del protagonista che senza autorevoli contatti e un inglese scolastico sbarca a New York, per vivere in pieno la Manhattan di Robert De Niro, Steven Spielberg e i campioni di football americano.
Non molto tardi però, dopo il primo incredulo periodo si accorge che la realtà che lo circonda è più dura di quella raffigurata sulla patina hollywoodiana e suggerita dal mondo del basket americano, quando ancora scriveva articoli sportivi dalla piccola Bologna. Cerca dunque di guadagnarsi la sopravvivenza attraverso lavori più o meno legali e contemporaneamente manda articoli inizialmente non richiesti a piccoli quotidiani di provincia in Italia (e senza l’aiuto di twitters, e-mails and so on..).
Il passaggio dalle proposte di reportage direttamente al successo delle prime fortunate interviste non è breve ma riesce: dal reportage sugli sport USA all’intervista a Steven Spielberg, o alle cinque cartelle su John Gambino dopo ore di ricerca negli “Archives” del New York Post per poi imbattersi, tramite un contatto, con una catena di giornali locali che gli fa varcare la soglia della redazione newyorchese de “L’espresso”.
Un crescendo di avventure, cadute e risalite fino al traguardo raggiunto del corrispondente dall’estero, da New York: Enrico Franceschini, come stigmatizza lui stesso riferendosi ad altri suoi colleghi di quegli anni, “ce l’ha fatta” e contemporaneamente riesce a farci vivere un tempo e un luogo a cui da sempre ci si riferisce come a dei miti.
Lo incontro alla Feltrinelli di Galleria Colonna a Roma durante la presentazione del libro e mentre aspetto il suo arrivo, insieme a quello del direttore de “la Repubblica” Ezio Mauro e del Presidente attuale della Rai, Paolo Galimberti, riunitisi per l’evento, leggo le pagine iniziali e… penso che fargli un’intervista deve valere proprio la pena!
La prima cosa che colpisce del tuo libro è la copertina: il palazzo del New Yorker settimanale statunitense fondato nel 1925 da due reporter americani. A voler credere ai segni o gli auspici, si potrebbe dire che aver scelto quest’immagine piuttosto che, quella, forse più autorevole, del New York Times possa valere come un messaggio positivo rivolto all’editoria odierna che purtroppo vede l’NYT in grosse difficoltà economiche. La scelta del New Yorker invece dell’ NYT, che è stato il tuo faro-guida nel percorso di formazione americana, può celare questo messaggio o ne ha altri?
“Le copertine sono spesso casuali, risultato di decisioni prese dall’editore o dal grafico, e in un certo senso è stato così anche stavolta: cercavamo una bella immagine grafica di New York, alla Feltrinelli è piaciuta questa, anch’io l’ho trovata bellissima ed è finita in copertina. Però talvolta il caso, o il destino, fanno bene il loro lavoro. Il palazzo del New Yorker è uno dei simboli della città. Il settimanale che porta quel nome è il miglior settimanale americano, a cui sono affezionato non solo perché continuo a leggerlo tutte le settimane dovunque mi trovi nel mondo ma anche perché ne intervistai tanti anni fa il leggendario direttore, William Shawn; e il direttore attuale, David Remnick, un altro giornalista destinato a entrare nella leggenda, due volte premio Pulitzer, era corrispondente da Mosca per il Washington Post quando io ero lì per “Repubblica”. Infine New Yorker non è solo il nome di un giornale, vuol dire anche semplicemente newyorchese ed è quello che diventai io e che forse, se dovessi scegliere una cittadinanza onoraria, sono ancora rimasto”.
Per il tuo libro hai scelto la forma del romanzo, o meglio del romanzo di formazione. Una bildungsroman professionale ed umana che ti ha portato alla piena affermazione come giornalista e come uomo. Gli stessi titoli, se si guarda direttamente l’indice, possono ingannare il lettore che si aspetterebbe, leggendoli, più una forma romanzata appunto. Perché hai preferito il romanzo ad una vera e propria autobiografia oppure a un saggio?
“Per due ragioni. La prima è che i fatti narrati risalgono a trent’anni fa, non potevo ricordare tutto, avrei dovuto inventare comunque dialoghi, sensazioni, situazioni, e allora la forma romanzo mi ha liberato dall’impaccio di sentirmi in colpa davanti a invenzioni o fantasie. La seconda è che, se penso oggi al me stesso di allora, a un ragazzo di provincia di 23 anni che sbarca a New York con mille dollari in tasca, nessuna conoscenza e un penoso inglese scolastico, col sogno di fare il giornalista nella Grande Mela, e riesce a realizzarlo, se penso a tutto questo non riesco a credere che sia davvero avvenuto. Mi sembra una di quelle cose che accadono solo nelle favole, al cinema o appunto nei romanzi. Anche per questo mi sono sentito meglio a raccontare la mia storia in modo romanzato. Così se qualcuno leggendo ha voglia di dire: “Eh, figuriamoci, è una bella storia, ma senza raccomandazioni non si va da nessuna parte.. È libero di dirlo”.
L’incipit del libro contiene a sua volta il racconto di un ante-fatto: l’ante-viaggio sul treno per Bruxelles. Immagino sia una scelta tecnico-narrativa che però ben trasferisce tutto il sapore che ha per te questo primo viaggio che sembra essere frenato da alcuni segni premonitori.
“Il libro è un romanzo autobiografico, dunque ci sono, come ho detto invenzioni e stravolgimenti rispetto alla realtà. Ma devo dire che riguardano piccoli dettagli. La sostanza è quasi tutta vera. Ed è vero il viaggio in treno. L’aereo per New York da Milano costava troppo, così presi un charter da Bruxelles, che raggiunsi in treno, risparmiando non poco sul biglietto ferroviario, grazie al trucco che racconto nel libro, ma che qui non ripeterò!”
Mi ha incuriosito molto il tuo approccio sin dall’inizio con le diverse etnie: hai evitato il ‘politically correct’ utilizzando gli epiteti razziali, allo stesso tempo non facendo del razzismo. Si capisce insomma il passaggio culturale avvenuto in te, improvvisamente balzato dalla provincia italiana ad una realtà multi-etnica qual era ed è quella Newyorchese. E’ stato così automatico per il protagonista, come si evince dal libro, oppure ha dovuto subire un processo vero e proprio?
“Non ricordo esattamente come fu per me, ma suppongo che il passaggio sia avvenuto poco per volta. In ogni modo il mio è, o almeno aspira ad essere, anche una storia divertente, ironica, talvolta comica, e non c’è niente di meno comico del ‘politically correct’. Così quando il protagonista esce con una cinese, e vorrebbe portarsela a letto, a un certo punto guardandola da vicino pensa che lei non abbia il naso, tanto ce lo ha schiacciato. Ma il modo in cui lo scopre e lo pensa, almeno nelle intenzioni dell’autore, non è razzista. Chi ci fa la figura del ‘coglione’ è lui, non certo lei”.
Voglia d’America o Voglia di Giornalismo? E’ stato interessante notare come la mera voglia iniziale d’avventura, del mito ‘America’ (così come era inteso negli anni ’80) si è via via trasformata nel desiderio sempre più carnale di ‘entrare’ nel mondo del giornalismo americano. A mio avviso, infatti, anche la stessa dichiarazione iniziale (“…il piano era semplice: conquistare l’America.. e diventare giornalista, scrittore, sceneggiatore…”) era più condita dall’immagine cinematografica che avevi degli Stati Uniti, rispetto alla successiva, più consapevole volontà, di diventare ‘corrispondente dall’estero’. La ricerca delle storie, dei fatti per informare un paese di cosa sta realmente succedendo, per liberare l’opinione pubblica dai facili stereotipi e pregiudizi. Perché da sempre il giornalismo americano o più generalmente quello anglo-sassone è ritenuto il punto fermo, la guida per chi intraprende questa professione? Cosa si differisce da quello italiano? E che tipo di contributo hanno dato invece i professionisti italiani o europei che come te a New York “ce l’hanno fatta”?
“Per rispondere a tutte queste domande ci vorrebbe un libro. Primo, io o meglio il protagonista del libro non vuole liberare l’opinione pubblica da facili stereotipi o pregiudizi. Vuole solo una cosa, almeno all’inizio: scrivere. Scrivere, scrivere, scrivere. Vedere il suo nome stampato su un giornale. Raccontare storie. Questo è quello che gli piace fare nella vita, che lo anima e lo eccita, non ci sono nobili secondi fini. Poi, un po’ per volta, si accorgerà che il giornalismo americano è una grande scuola, e questo lo porterà a essere un giornalista migliore: ma è una cosa che nel mio libro si intravede appena, sta più nel futuro che nel presente, credo.
Inoltre,il giornalismo americano differisce da quello italiano in tutto: separa i fatti dalle opinioni, non scambia lo stile barocco carico di aggettivi e belle frasi per il bello scrivere, lavora sodo per trovare fatti e verificarli. Naturalmente anche in Italia ci sono buoni giornali e buoni giornalisti, ma tra un piccolo quotidiano di provincia americano e un piccolo quotidiano di provincia italiano c’è un abisso a vantaggio del primo. I giovani italiani di allora che si sono fatti le ossa a New York hanno contribuito a svecchiare e cambiare qualcosa del giornalismo italiano. Ma la differenza con quello americano rimane abissale”.
Ad incorniciare il racconto, all’inizio e alla fine, uno spazio temporale diverso riferito al presente del protagonista: un nuovo inizio dopo 30 anni di forti esperienze, di passione per una professione e per la scrittura. E’ ancora possibile oggi fare un’esperienza simile, non nei dettagli certo, ma guardando alla crisi economica odierna, a quella che investe l’editoria nazionale e mondiale e ai nuovi modi di fare informazione (internet, TV digitale, blog, twitter)? Qual è ancora oggi il valore della carta stampata?
“Anche per rispondere a queste domande un libro o due non basterebbero! In breve, se avessi ventitre anni oggi e gli stessi sogni di allora, cercherei di partire per la New York del ventunesimo secolo: Shangai, e poi cercherei di imparare il cinese e scrivere articoli da lì. Sarebbe più complicato, per la crisi e le trasformazioni dei media, ma qualcosa si potrebbe fare lo stesso. Quanto al valore oggi della carta stampata, io direi che il mezzo conta meno dell’informazione che trasmette: di carta o digitale, ci sarà sempre bisogno di un giornale per sapere quello che succede nella propria città, nella propria nazione, nel mondo. E io rimango della stessa opinione di Thomas Jefferson: “Se dovessi scegliere tra un governo senza giornali o giornali senza governo, non esiterei a scegliere la seconda soluzione”.
E’ la stessa opinione che circa un mese fa Barack Obama ha espresso. Sempre a voler credere ai segni e agli auspici ma anche ad alcuni timidi positivi segnali di oggi, nonostante tutto.
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