66a Mostra del cinema di Venezia: considerazioni e riletture
L'israeliano Lebanon ha vinto il Leone d'oro di questa 66a edizione della Mostra del cinema di Venezia. Tutto ampiamente prevedibile, poiché il film di Samuel Maoz aveva tutte le carte in regola per imporsi facilmente sui concorrenti. In primo luogo perché é un gran bel film , e non è poco. Secondariamente perché é un film politicamente corretto: girato da un israeliano assai critico verso la discutibilissima politica estera del suo paese, violentemente pacifista seppur con qualche perdonabile eccesso di retorica, commosso nell'osservare impietosamente i giovani combattenti di ogni schieramento diventare impotente carne da cannone. Soprattutto, però, Lebanon è - insieme a Lourdes dell'austriaca Jessica Hausner, mostruosamente ignorato dalla giuria - il film con l'idea di regia più forte alla base. La scelta di ambientarlo interamente dentro un carro armato e di mostrare il mondo esterno solo attraverso il periscopio del blindato, se talvolta risulta un po' estetizzante e altre volta un po' didascalica, conferisce sicuramente grande forza al film dell'esordiente regista di Tel Aviv.
Il Leone d'argento per la miglior regia ha premiato un'altra opera prima ed e' andato alla videoartista iraniana Shirin Neshat per Women Without Men, elegantissimo affresco storico sul colpo di stato ordito dalla CIA in Iran nel 1953. Il premio speciale della giuria è invece andato a Soul Kitchen di Fatih Akin, uno dei film più divertenti in concorso, una ritmatissima commedia ambientata tra le periferie di Amburgo, nelle zone ad altà densità di immigrazione, spesso irriverente, mai volgare, sempre composta.
Scontatissima la prima delle due Coppe Volpi, quella maschile, che premia il "mostruoso" Colin Firth di A Single Man, esordio perfetto di Tom Ford alla regia. L'attore inglese, nella parte di un elegantissimo professore inglese trapiantato in America all'inizio dei '60 che progetta il suicido perché incapace di elaborare il lutto della morte del compagno, è semplicemente perfetto, a tratti miracoloso. Meno prevedibile il premio a Ksenija Rappoport come miglior attrice per La doppia ora di Giuseppe Capotondi. Qui, però, vale la pena di aprire il discorso su ciò che non ha funzionato in una mostra apparsa comunque di buon livello complessivo. Un primo dato, evidente: troppe scelte politiche, troppa politica a ruota di alcune scelte. Tre dei quattro film in concorso sono film Medusa-Mediaset, e almeno due di questi, in concorso, a mio modo di vedere, non avrebbero dovuto esserci. Baarìa di Tornatore, che ascoltando solo i media "allineati" sarebbe un capolavoro e che invece è uno dei più pasticciati film di Tornatore, ha aperto la mostra, e non certo perché possedeva le caratteritiche artistiche per farlo. La propaganda si fa anche così, ahimé. Altro discorso, forse, per Il grande sogno di Michele Placido, stortura tutta italiana di un film pop e senza spessore ideologico sul '68 girato da un regista sedicente sinistrorso e finanziato sempre dalla berlusconiana Medusa. Segno dei tempi, segno del caos. Dato che i due film in questione erano oggettivamente impremiabili - il piccolo premio Mastroianni per gli attori emergenti a Jasmine Trinca che emrsa lo è già da un po', sa proprio di atto dovuto - per rendere omaggio al paese ospitante la giuria ha dovuto optare per gli altri due. Lo spazio bianco, a parer mio, è un altro brutto film, ma Margherita Buy è comunque brava. Ang Lee e i suoi colleghi di giuria, però, hanno preferito puntare sul film obiettivamente più interessante del quartetto, il thriller La doppia ora dell'esordiente Capotondi e hanno scelto di premiare la brava Rappoport, tutto sommato il miglior compromesso possibile. La politica, o ciò che di essa rimane in Italia, ha corroso anche altri momenti forti del festival. L'arrivo di Chàvez, ad esempio, ha avuto in sé qualcosa di grottesco. Certo, il presidente venezuelano sarà anche un simbolo della lotta all'imperialismo americano, avrà anche contribuito a restituitre dignità al continente sudamericano, ma l'accoglienza da star come fosse Gandhi a quello che tutto sommato rimane una sorta di dittatore mi è parsa a suo modo inquietante, così come i primi 30 minuti agiografici del documentario a lui in parte dedicato girato da Oliver Stone e come le imbarazzate prese di distanza della Biennale all'indomani dei fulmini politici scagliati da chi, nel governo, non ha gradito l'acclamazione del leader sudamericano. Vergognoso il ritiro di Francesca, film rumeno di Bobby Paunescu, bloccato per un insulto, in un dialogo, all'onorevole Alessandra Mussolini. Sicuramente, le gentile nipotina di Benito non avrà visto il film, ma con il consueto spessore ha deciso di indispettirsi per una frase fuori contesto e ha fatto bloccare il film. La politica ha anche trasformato in evento la proiezione di un mediocre film di montaggio come Videocracy, per giunta in uscita in sala negli stessi giorni del festival, uno dei classici prodotti che purtroppo ribadisce cose tristemente note ad uso e consumo di un pubblico che non cambierà idea perché già "la pensa così" (gli altri, ovviamente, non guarderanno).
Non è stata la poltica, invece, a dettare altre scelte estremamente discutibili. Su tutte,
Romero, quel Romero in concorso grida vendetta. Con buona pace dei ghezziani e di coloro che aprioristicamente si spellano le mani per qualsiasi cosa partorisca il "padre" degli zombie, Survival of the Dead è forse il peggior film del regista americano. Probabilmente, un omaggio o una retrospettiva, con il nuovo film fuori concorso e qualche vecchio film in palinsesto, sarebbero stati di gran lunga una scelta più comprensibile.
Purtroppo, inoltre, sbandierata alla vigilia come la mostra drgli horror, da questo punto di vista la kermesse ha lasciato molto a desiderare. Da Romero al ritorno di Joe Dante, passando per l'imbarazzante La Horde - horror francese inspiegabilmente acquistato da Domenico Procacci di Fandango per la distribuzione italiana - al Lido abbiamo visto film che si possono dimenticare in fretta.
Molto più efficace e produttiva, invece, la scelta delle molte opere prime nella competiione ufficiale, dalle quali sono arrivate le sorprese più gradite - e tra le quali la giuria ha pescato a piene mani per l'attribuzione dei premi.
Insomma, tirando un primo bilancio la Mostra dell'anno della crisi è stata, tra luci ed ombre, tutto sommato di buon livello, sicuramente di gran lunga superiore all'edizione passata. Certo, si respirava aria "di transizione", acuita dai cantieri per la costruzione del nuovo palazzo del cinema, ma il lavoro fatto da Muller e dall sua squadra è comunque sempre da valutare molto positivamente.
La 66a mostra del cinema di Venezia ci consegna ora ad una stagione che si preannuncia straordinaria. Qui in Italia, a partire dalle prossime settimane, pioveranno film americani di straordinaria importanza, tutti insieme come non si vedeva da tempo, qualcuno già uscito negli States. Da Tarantino ai Coen, da Burton a Michael Mann, da Scorsese a James Cameron, da Coppola a Raimi, sarà una stagione elettrizzante, nella quale speriamo anche di rivedere, ormai a due anni dagli ultimi bagliori nel buio di Gomorra e di Il divo, qualche segnale di ripresa dal nostro povero cinema italiano.
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